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01
     

Maria Rosa Romegialli

Natolibero


In  ricordo  dei  miei  fratelli  PIERINO e SERGIO  veri  testimoni
oculari degli avvenimenti ed unici custodi di un grande segreto.

E il giovane Giuliano Pajetta si avvicinò alla donna italiana e le sussurrò:
«Il tuo bambino deve nascere e lo chiamerai NATOLIBERO perché ricordi la nostra vittoria sul nazismo».
Poi si allontanò lentamente e tornò alla sua baracca nel campo di Mauthausen.

PRESENTAZIONE

Questa storia non doveva essere raccontata, perché una neonata doveva morire.
Nel 1944, coraggiosamente, una donna italiana scelse la vita per la creatura che portava in grembo, conseguenza di uno stupro di un militare nazista.
Nonostante l’inferno intorno a lei, quella donna riuscì a tornare a casa. Ma fu proprio qui che dovette sopportare il più tremendo dei dolori e la più grande delle sofferenze.
Morì dopo 10 anni, rinchiusa dai familiari in ospedale psichiatrico.
Quella neonata, salvata dal sacrificio personale di un deportato di Mathausen, il cui nome era Giuliano PAJETTA, oggi può parlare e raccontare una storia bellissima e unica.
Faticosamente e dolorosamente ha ricostruito la sua esistenza e quella di sua madre; ha dovuto, necessariamente, inserire pagine di “ricostruzioni veridiche” per far partecipare tutti al suo dramma, ricostruito sulla memoria di altri.
Non può, qualche volta, testimoniare con pezze giustificative la sua ricostruzione, ma quello che emerge sono le terribili condizioni in cui nacque quella neonata.
Una donna, deportata come lavoratrice straniera per il Reich, fuggita da un campo di punizione della Gestapo, come poteva giustificarsi?
Dopo 60 anni, quella neonata dà voce a sua madre.


02

IL SEGRETO

Questo è stato il mio segreto.

Desidero che queste mie riflessioni giungano a mia sorella Maria Rosa Gusmeroli, l’unica persona alla quale ho rilasciato la verità sulla tragica storia della nostra famiglia.
Sono Pierino Gusmeroli, fratello maggiore di Maria Rosa e confermo che quanto mia sorella ha registrato a Caserta e a Teano, in due tempi successivi, è la verità, una verità sempre taciuta ma sempre conosciuta da tutti.
Solo a mia sorella Maria Rosa sono riuscito a raccontare il tristissimo e tragico avvenimento che ha segnato la mia vita per sempre.
Quel ricordo mi sconvolge ancora oggi ma sono riuscito a raccontarlo grazie alla sensibilità di questa mia cara sorella, ritrovata dopo 50 anni.
Con pazienza e molto timore ho riportato alla superficie quei ricordi tragici, li ho voluti far registrare affinché si comprenda quanto catastrofico sia lo sfasciamento di una famiglia in tempo di guerra.
Allora avevo solo 8 anni ed ero il fratello maggiore, ma per tutto quello che avvenne gli adulti mi diedero colpe che non avevo e le sorelline non seppero mai nulla... tutti mi obbligarono a un silenzio che è durato 50 anni.
 La mamma era già stata arrestata ed era scomparsa dal paese.
Io non riuscivo a scordare la scena avvenuta di notte a casa nostra: schiamazzi, urla, bastonate al nonno, pugni e calci alla mamma. Fummo rinchiusi in camera, udivo delle urla. Mi ripromisi di ammazzare quel cane che aveva osato tradire la mamma!
Il giorno dopo la vecchia mamma Vanoni cercò di consolarmi, ma io scappai e andai dal maresciallo dei Carabinieri, Azzario e a lui, amico di famiglia, urlai il mio dolore.
Nella baita del nonno ad Arzo erano nascoste delle armi, c’era anche un fucile mitragliatore.
Nell’aprile del 1945 tornò al paese un personaggio equivoco e nefasto: dapprima operaio della
Todt, in seguito informatore e spia che causò l’arresto di alcuni morbegnesi. Era un ispettore alla spedizione della legna delle segherie valtellinesi e la mamma lo conosceva bene perché lavorava in segheria.
Seppi che era stato lui a denunciare la mamma e così come un folle corsi alla baita e presi lo stern, nascosto nella cappa del camino e ripercorrendo quella strada nel bosco, mi diressi verso il paese. Il mio odio era immenso.
Inciampai e l’arma cadde lungo un piccolo rigagnolo d’acqua formato dal fiume Bitto. Svenni e quando mi ripresi corsi in paese e piansi, per molto tempo.
Quell’uomo fu ucciso poco dopo proprio in paese, da una mitraglietta stern. Io avevo desiderato tanto la sua morte... ma non l’avevo ucciso io.
A 18 anni partii dal paese e non vi tornai più.
Quell’odio immenso mi ha accompagnato pesantemente per tutta la vita.
Nel maggio del 1945 una Balilla nera si fermò davanti al nostro portone. Un autista fece scendere un uomo magro, alto e dal viso stanco e pallido, che sembrava ammalato. Questi gentilmente mi chiese di vedere la mamma e io lo accompagnai nell’orto. Qui lo sconosciuto e la mamma si abbracciarono commossi. Piangevano, sembravano conoscersi... parlarono fitto fitto per un poco, poi giunse la nonna che urlando lo cacciò malamente. Io rimasi stupefatto per il suo comportamento ma la mamma aggiunse serenamente:
«È un vecchio amico di prigionia, mi ha salvato la vita».
Seppi in seguito che quell’uomo si chiamava Pajetta.
Tutta questa storia ho cercato di dimenticarla, ma i dolori di allora hanno segnato il mio cuore. Mi sono fatto una famiglia mia, ma sono sempre stato taciturno e riservato; mi sono dedicato dapprima a fare lunghi viaggi all’estero e poi mi sono adattato a stare nella masseria.
Poi è giunta mia sorella Maria Rosa e la ferita si è riaperta e i ricordi sono affiorati.
Questa mia sofferta testimonianza vuole essere una conferma alla nostra storia familiare.
Maria Rosa è la sola persona alla quale io abbia aperto il mio cuore.

24 maggio 2003

In fede (documento firmato)

03

IL RACCONTO HA INIZIO...

( solo alcuni spezzoni iniziali del racconto )

La Valtellina è la più suggestiva delle vallate prealpine lombarde.
La natura vi segue il suo ritmo immutato e ancestrale, i profumi intensi e i mille giochi di luce nella fitta vegetazione dei boschi non si sono interrotti. La costiera retica e l’orobica chiudono sui due lati la valle su cui domina il pizzo dei Tre Signori.
Scendendo verso valle si sente il profumo dei boschi di larice e dei faggeti, sotto cui nascono le pianticelle di mirtillo selvatico. Passeggiando lungo i sentieri silenziosi si possono trovare angoli selvaggi, ma di una struggente bellezza.
Tutto questo circondava la vita di Augusta Romegialli e della sua famiglia. Era la terza figlia di Romeo e Maria e fu la più amata. Il padre la portava sempre con sé durante la raccolta e la preparazione delle foglie su cui adagiare i bachi. Augusta era tenace e forte, esuberante ed estrosa, infaticabile. Il lavoro non la spaventava, accudiva le bestie, raccoglieva i rami per il fuoco, lavorava il latte, lucidava le pentole di rame. Amava profondamente la sua famiglia. Alla fioca luce di una lanterna leggeva il giornale senza fare alcun commento, mentre le donne filavano la lana e i bambini chiedevano le favole. L’intelligenza precoce della bambina fu notata dal prevosto del paese che incoraggiò la sua istruzione. Il padre seppe contemporaneamente darle forti insegnamenti di libertà, di giustizia, di democrazia.
Con la guerra però molte cose cambiarono in valle e nelle famiglie contadine. Augusta appartenne alla generazione che visse quella lunga e dolorosa stagione che portò anche il rude popolo valtellinese a combattere attivamente e poi a travolgere la dittatura nazifascista. Fu una donna combattente, ma pagò per questo un durissimo prezzo che le sconvolse la vita.
Cresciuta con un’emancipata visione sociale di un mondo femminile pari a quello maschile, la sua attività durante il regime fu molto difficile. Fu molto difficile, perché si ribellava alle ingiustizie e anche isolata perché si mostrò più di una volta insofferente alle imposizioni di piccoli e insignificanti gerarchi del paese. Si era sposata e aveva avuto figli, ma seguì sempre gli avvenimenti interni alla filanda, dove sapeva che ancora molte giovanissime operaie erano obbligate a lavorare con le mani a bagno in grandi vasche di acqua calda per svolgere il filo dai bachi. L’acqua bruciava la pelle e formava piaghe, l’ambiente era malsano e molto umido. Augusta cercava di far capire loro quanto ingiusto fosse tutto questo anche a fronte dei piccoli miglioramenti sociali voluti dai fascisti.
Molti giovani erano partiti per andare a combattere nelle desolate pianure russe, ma erano equipaggiati insufficientemente e Augusta si era messa alla testa delle donne per preparare indumenti di lana. Molti di quei ragazzi morirono nel gelo russo e toccò alle donne e agli anziani sostituirli nel faticoso lavoro dei campi. Così il primo anno di guerra maturò l’autonomia decisionale delle donne. Le necessità quotidiane avevano dato loro coraggio e tenacia per fronteggiare le situazioni più critiche e anche le operaie delle filande iniziarono a interessarsi alla propria condizione sociale.
Proprio quell’anno la Valtellina fu al centro di più interessi economici. Gli americani seppero delle numerose dighe e delle centrali elettriche e ne progettarono la difesa, mentre i tedeschi si appropriarono delle aziende di legname che finirono così sotto la giurisdizione della
Todt. I tedeschi richiesero il lavoro forzato di uomini e animali e così Augusta, che in segheria organizzava l’intero viaggio dei tronchi dai boschi alla ferrovia, iniziò a sabotare quell’attività giocando sui “ritardi tecnici” degli animali o sui “malori” dei carrettieri spossati dal pesante e continuo lavoro.

In segheria era arrivato un ispettore governativo, uomo autoritario e disumano, che trattava tutti con superiorità e da tutti esigeva obbedienza assoluta.
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Con i figli in istituto Augusta si attivò anche sul piano politico.
Da alcune amiche che lavoravano alla filanda aveva saputo di liste di lavoratrici da trasferire in Germania. Quelle liste racchiudevano la metà della maestranza femminile e l’ingaggio quasi sempre era fatto in modo coercitivo e illegale. Augusta si sentiva vicina a quelle lavoratrici, madri di famiglia, che avrebbero dovuto lasciare i propri figli ed emigrare in Germania e lavorò anche di notte ma dall’esterno per preparare una dimostrazione unitaria di disobbedienza proletaria. Fu un periodo massacrante e pericoloso, nelle piazze della valle però si raccolsero non solo le operaie tessili ma anche i contadini e i lavoratori delle segherie per protestare. I fascisti non colpirono pesante, ma presero nota di molti nomi che arrivarono loro attraverso “informazioni privatissime” dai loro osservatori sparsi in tutti i paesi.
Ancora oggi la figlia maggiore di Augusta, ha solo ricordi tristi di quella primavera del 1943. Aveva sei anni, gli occhi aperti sul mondo, e vedeva la sua casa silenziosa e senza genitori. Poi fu portata con la sorella Rosita in un istituto di suore così severe che non sapevano dare comprensione, né cristiana né umana, né un semplice sorriso. Non c’era allegria per le orfanelle più povere, che dovevano solo obbedire, dire rosari in cappella, sfilare nella loro divisa nera mute e con gli occhi bassi. Un Natale una benefattrice le regalò una bambola, ma la suora direttrice la portò in soffitta dicendo alla bambina che avrebbe dovuto meritarsela. La piccola allora si fece più obbediente, più silenziosa, più pronta in tutto, ma quel regalo non le fu mai ridato. Di quei lunghissimi mesi passati in istituto Franca ricorda l’amarezza della sua situazione e il dolce sogno di stringere tra le braccia quella bellissima bambola.
Il figlio maggiore di Augusta, forte di carattere e molto maturo per la sua età, aveva un legame particolare con la mamma; era un bambino felice perché trattato da lei come un figlio speciale a cui fare piccole confidenze da quando in casa era venuta a mancare la presenza paterna. Era uno scolaro diligente e molto curioso. Ebbe un buon maestro di nome Stanislao che lo comprendeva e lo pungolava nello studio. Del 1943 ricorda i lunghi discorsi con la mamma sulla situazione familiare. In istituto gli facevano compagnia i dolci ricordi della sua famiglia, la grande vigna dei nonni e il cortile dove poteva correre, i giochi con l’amico Ezio Vanoni che abitava accanto a loro nel vecchio mulino vicino alla ferrovia, il profumo della pigiatura dell’uva e le due famiglie che si incontravano e facevano festa. Aveva solo otto anni il primogenito di Augusta, ma per il suo carattere forte non si piegò alle continue vessazioni e insinuazioni delle suore dell’orfanotrofio.
Erano convinte che quella donna avesse abbandonato i figli perché profondamente egoista, di principi morali deboli, pervasa da un’insana sete di avventura.
L’armistizio in paese fu un dramma: molte persone scomparvero, i giovani salirono in montagna, la dittatura nazifascista diventò più dura. Il bravo e buon maestro Stanislao dovette partire per la Grecia, Augusta e Pierino andarono a salutarlo alla stazione ed egli ne fu felice.

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In quei mesi arrivarono in valle le prime famiglie di ebrei scappati dalle grandi città perché perseguitati dalle leggi razziali.
Si mormorava che avessero grandi patrimoni, ma si adeguarono immediatamente allo stile di vita valligiano. Solo pochi mesi dopo si avvicinò il pericolo dei rastrellamenti e così iniziarono a fuggire in Svizzera. Intere famiglie cercarono la fuga attraverso le valli di Masino, la Valmalenco, i boschi sopra Tirano. Si compravano il viaggio pagando grosse cifre ma molto spesso le guide avide di denaro li riportavano in Italia proprio in mano alla guardia confinaria fascista. Le città lombarde furono bombardate e gli sfollati fuggirono in Valtellina credendo erroneamente di trovarvi un buon rifugio. Il prefetto di Como aveva ordinato ai militari in servizio all’8 settembre di presentarsi al Distretto entro il 2 ottobre, altrimenti sarebbero stati dichiarati disertori e fucilati. Contemporaneamente, con l’armistizio furono liberati duemilacinquecento prigionieri alleati rinchiusi a Bergamo alla Grumellina, a Brione. Questi ragazzi con addosso ancora le uniformi militari americane o inglesi si ritrovarono abbandonati a se stessi e a contatto con gente a loro ostile.
Quell’autunno pioveva spesso ed essi si rifugiavano in capanne di paglia fradicia. Erano affamati e non conoscendo i luoghi molto spesso cadevano in mano ai fascisti che avevano organizzato posti di blocco e rastrellamenti nelle valli minori.
Augusta diventò una guida volontaria per quelli che cercavano la libertà.
Libertà, appunto. Questa parola fu il centro di tutta la sua esistenza, il punto da cui partì per agire per la sua patria che voleva libera e democratica.
Un giorno vide abbattere con una fucilata alla schiena un ragazzo che aveva ancora addosso la divisa di pilota americano.
La fucilata fu improvvisa, il militare alzò le braccia al cielo. Augusta ritornò sui suoi passi e lo vide disteso per terra, gli sollevò la testa e notò che era ancora vivo. Lo sguardo era quello di un fanciullo indifeso, prima che morisse. Allora attrezzò la baita del padre lungo una mulattiera che scendeva in paese ben nascosta da alti castagni e da querce secolari e in quelle due stanze arredate in modo semplice sistemò nuovi giacigli e legna da bruciare. Molto ingegnosamente Augusta teneva la buca del letame di fronte alla baita sempre mezza vuota, così quelli che arrivavano vi gettavano in fondo le divise e in superficie davano fuoco a sterpaglie. Rifocillati e riposati e con abiti diversi, americani e inglesi seguivano Augusta lungo sentieri impervi fino alla valle che porta al passo Scalino e scendevano poi in territorio elvetico.
Quell’inverno fu molto freddo, c’era l’oscuramento alle sette e mezza e alle nove il coprifuoco fino al mattino presto.
Tutti avevano paura di sentir improvvisamente battere colpi violenti alla propria porta e di veder apparire i fascisti. In quei mesi erano anche iniziate le delazioni, ai fascisti arrivavano lettere anonime di denuncia di privati cittadini che accusavano amici, vicini di casa, familiari. Erano lettere dettate solamente da motivi personali o da rancori venuti alla luce dopo l’armistizio.
Molto spesso erano vendette politiche che ebbero un tragico epilogo nell’aprile del 1945. Augusta pensava al peggio. Temeva una denuncia dell’ispettore collaborazionista della
Todt ed era sicura di essere stata notata da qualche fedelissimo “osservatore speciale” in paese.
Una sera di dicembre era felice perché aveva portato i due figli maggiori dall’orfanotrofio a casa dei genitori e sperava di stare un po’ con loro. Aveva accompagnato la madre dal fratello, il padre dormiva, i figli erano a letto. Era restata sveglia a lungo con lo sguardo fisso sulla fotografia del marito, poi si era addormentata. La casa era tranquilla, sembrava una notte come le altre. Dopo qualche ora improvvisamente il silenzio fu rotto da schiamazzi e urla sotto alle finestre: il cane abbaiava furiosamente ma fu messo a tacere subito, diverse voci si inseguivano disordinatamente nel cortile. La porta che saliva ai piani superiori fu quasi scardinata e una volta aperta le urla risuonarono su per le scale e lungo il corridoio. Augusta era rimasta pietrificata a letto, i bambini ancora non si erano accorti di nulla, il nonno era sordo e continuava a dormire.
Quelle belve trovarono la camera del vecchio contadino, la spalancarono e urlando lo coprirono di botte scaraventandolo per terra. Augusta, che aveva capito la situazione ed era uscita a precipizio dalla sua camera, fu subito agguantata da tre energumeni che le impedirono di andare nella camera dei figli, dove il maggiore, di otto anni, era restato muto e paralizzato a letto, mentre il fratellino, di otto, urlava e imprecava cercando di sgusciare dalle mani di un uomo alto e grosso. Augusta vide la porta della camera dei figli richiudersi violentemente e da quel momento non li vide più. Spinta lungo il corridoio riuscì a intravedere per un attimo suo padre per terra sanguinante e terrorizzato. Le fu notificato l’arresto in nome della nuova legge repubblichina. Tenendola ferma al muro con una pistola alla tempia i fascisti giravano per casa rovistando nella biancheria, negli armadi, nei cassetti. In cucina trovarono un coltello e tagliarono un vecchio divano e una poltrona, staccarono dalla parete il crocefisso che fu buttato per terra e calpestato.
La casa fu messa sottosopra, ma non trovarono nulla.

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GRAZ

 Era la sera del 2 marzo del 1945 quando due squadriglie di bombardieri americani sorvolarono il cielo di Graz portando distruzione specialmente a sud-est della città. Anche nella caserma regnava la confusione, i prigionieri chiamavano e urlavano, i sorveglianti correvano nei corridoi urlando e bestemmiando. Ogni piano dell’edificio era al buio, al pianterreno nella cucina stavano ancora lavorando alcuni prigionieri.
Augusta stava sistemando i sacchi delle verdure quando iniziò a suonare la sirena d’allarme interna: si buttò sotto a un grande tavolo e da lì sentì arrivare a intervalli regolari gli aerei che sganciavano le bombe. Il rumore era molto vicino, si sentì per un attimo una sirena d’ambulanza, poi tutto fu coperto dal fumo acre a cui fece seguito un attimo di silenzio spettrale. La squadriglia successiva colpì le case vicine e sembrò ad Augusta che una mano gigantesca avesse tolto la casa dalle fondamenta. Vi fu un grande boato e subito dopo uno spostamento d’aria talmente forte che aprì tutte le porte e le finestre del pianterreno, i vetri andarono in frantumi ed entrò una polvere grigia e soffocante. La porta della cucina che era chiusa a chiave si era spalancata. Augusta si rimise in piedi e corse verso il corridoio, non incontrò nessuno, guardò verso il corpo di guardia all’entrata e dove prima c’era la sentinella e la porta vide un grosso buco. Era l’occasione che aspettava.
Corse fuori in strada in mezzo a una nuvola di terra e calcinacci.
Sul marciapiede intravide un’ambulanza con le portiere aperte e i due occupanti che penzolavano fuori. Augusta sentì un forte movimento nel suo corpo, si fermò un attimo e si guardò attorno, poi iniziò a seguire un lontano rumore di sirena.
Arrivò a una grande via e si trovò davanti una barriera di edifici in fiamme. Fu investita dall’intenso calore e per precauzione si portò al centro della strada per evitare la caduta di muri pericolanti e infuocati. Si allontanava, ma in realtà fuggiva dal nazismo e dai suoi orrori; c’era la neve e scivolava, le scarpe e le calze le si impregnarono subito d’acqua e diventarono pesanti.
C’erano sulla strada motociclette arrugginite e fumanti, biciclette contorte, furgoncini ribaltati, reti da letto, una barricata sfondata, corpi di militari sbalzati da un sidecar con i crani fracassati. Da una piazza su cui non si affacciavano più case prese un largo viale. Improvvisamente sentì un rombo minaccioso a cui fece subito seguito una raffica di artiglieria che andò a colpire una finestra di un edificio già bombardato.
Fu investita da calcinacci e detriti, la bocca le si riempì di polvere, iniziò a tossire violentemente. Non riusciva più a respirare ed emise un gemito, sollevò le mani al cielo: non poteva morire adesso che era libera e che suo figlio doveva nascere.
Riprese fiato, ma non era finita. Sentì ancora un sibilo lungo e acuto, chiuse gli occhi e si nascose in un portone diroccato.
Vi fu un’esplosione che rimbombò come un tuono impazzito.
Augusta andava avanti e con la forza della disperazione quel giorno camminò per ore. Incontrò una coda di donne a una pompa dell’acqua, i piedi nella neve, i volti tesi e stanchi. Più avanti fu sorpresa dall’esplosione di un altro ordigno e automaticamente si inginocchiò con la testa tra le braccia. E poi ancora rovine e incendi in una città fantasma. Era stremata, il sudore le imperlava la fronte, iniziava a sentirsi male, le spalle magre le tremavano per il freddo. Si lasciò andare e scivolò in un sonno pesante e buio.
Nessuno, nemmeno lei, potrà raccontare cosa successe dopo.
Era il 2 marzo del 1945. Dopo quasi due anni di prigionia si trovò in un letto morbido e pulito. I suoi occhi si riaprirono su un biancore che la circondava, c’era odore di ospedale.
Non riusciva a parlare, aveva la gola secca e tanta sete, le mani erano magre e tremanti, le unghie luride, ma era viva. E si riaddormentò.
Quel suo risveglio in un ospedale fu l’inizio di una nuova storia.
Il 14 marzo di notte su Graz si era abbattuta la violenza delle unità aeree alleate che ormai sapevano della sfiducia della contraerea e della fanteria tedesca. Era notte ma la città era illuminata a giorno, l’aria era irrespirabile e grigia, si faceva fatica a distinguere le persone dalle cose, piovevano macerie infuocate. La zona fu evacuata dai civili.
L’operazione fu molto difficile, in quel fumo denso si faticava a trovare una via di scampo, molti morirono bruciati per strada.
Poco più a nord c’era l’ospedale di Sankt Leonhard, complesso formato da molti edifici, centro universitario di ricerca.
Gli Alleati non osservarono la croce rossa sui tetti e una vasta ala del complesso prese fuoco, esattamente quella della maternità.
Il reparto fu sgomberato rapidamente spostando i letti con le rotelle o trasportando i feriti e i malati su barelle. La confusione era totale. Il personale ospedaliero lavorava alacremente, Augusta fu tolta dal letto da un’infermiera e issata su una barella che fu spinta velocemente lungo un corridoio dove c’erano altre barelle, tutti urlavano perché volevano scendere al pianterreno dove era stata sistemata una grande camerata per le emergenze. Faceva ancora freddo e i barellieri non avevano abbastanza coperte per i ricoverati. C’erano persone in preda al panico, molti bambini erano stati messi in un letto e portati fuori nel cortile nel gelo della notte. La barella di Augusta era spinta da una ragazza che era la levatrice del reparto, il suo nome era Brigitte. Le due donne avevano fatto amicizia e riuscivano a scambiare qualche parola. Brigitte confortava Augusta e ogni volta che era di turno la visitava.
Erano le tre del mattino quando era scoppiato il finimondo all’interno dell’ospedale e la levatrice aveva capito subito la gravità della situazione. Iniziò quella folle corsa attraverso il lungo corridoio e spinse la barella verso un’ala non ancora preda delle fiamme. Entrarono in un montacarichi di servizio e arrivarono al pianterreno. Augusta ebbe qualche attimo per guardare in volto quella brava ragazza che le faceva coraggio dicendole che suo figlio sarebbe nato. Il montacarichi si aprì e Brigitte spinse fuori la barella. Cercava di arrivare alla camerata sotterranea, ma improvvisamente cambiò idea perché si accorse che il travaglio di Augusta era iniziato. La portò lungo un muro lontano dalla confusione e dalle fiamme dell’incendio.
Augusta cercava di respirare ma l’aria era gelida e acre. Fu presa dal panico perché la gola le faceva male, non riusciva a calmarsi e in quelle condizioni non poteva dare sufficiente ossigenazione al bambino. Il suo corpo riceveva pugnalate dolorose a cui faceva seguito un calore strano, avvolgente, e poi un vento gelido, e quel vento era squarciato ancora da una pugnalata, e avanti così per un’ora o più. Quando ritornava lucida, sentiva sulla fronte una carezza. Poi il respiro si fece più veloce ma regolare, non vi furono più le pugnalate nel ventre, solo come strappi della pelle. Augusta si sentiva estranea a quel figlio, l’amore materno non c’era in quel momento, ma combatteva per dargli la possibilità di nascere vivo. La levatrice continuava a parlarle dolcemente. Augusta faceva tutto da sola quasi meccanicamente, il volto lucido per il sudore, il respiro sempre più breve e affannoso. I dolori alla schiena e all’addome si facevano sempre più forti, le contrazioni si susseguivano senza intervalli. Vi fu un ultimo e lunghissimo momento di apnea e con un gemito prolungato apparve il bambino. Con un urlo di gioia Brigitte subito disse ad Augusta che era una bambina, molto magra ma sana. Augusta guardò quell’esserino emaciato, le fece pietà e pianse, pianse a lungo.
Brigitte gliela diede da tenere e la bambina aprì gli occhi e fece un versetto di gioia. Mamma Augusta capì il messaggio di quella figlia che aveva combattuto per venire al mondo viva e libera. Ora toccava a lei portarla in salvo. La neonata aveva la testolina senza capelli, le labbra in posizione di succhio, le manine chiuse con forza a pugno. La madre le toccò leggermente una manina ed ella la strinse subito con forza, come per farle capire che loro due potevano uscire da quell’inferno. Augusta se la strinse al cuore, la piccola teneva il volto girato verso la sua mamma. Brigitte suggerì di chiamarla come il fiore più bello che vi fosse al mondo, Rosa.
Era un piccolo fiore sbocciato all’inferno. Tutt’intorno era ritornato il fragore della battaglia, ma quella neonata aveva dimostrato che la vita aveva avuto la meglio sulla morte. Poi vi fu un urlo e il corpo della levatrice colpito da un tizzone ardente cadde accanto al letto. I capelli bruciavano, il fuoco la avvolse... quell’attimo di gioia conquistato da Augusta dopo un travaglio morale lunghissimo fu offuscato da quella morte assurda.

Augusta fu dimessa il 23 marzo con alcuni documenti.

La bambina era sopravvissuta alla nascita e i medici la consegnarono alla madre che desiderava riportarla in Italia. Faceva ancora freddo, le diedero un piccolo zaino e una borsa con un pezzo di coperta che sarebbe stata la culla della neonata nel lungo viaggio. Augusta pensò di mettere sotto alla coperta una bottiglia di vetro con acqua calda perché vi fosse un po’ di tepore durante il viaggio per la piccola. La bottiglia era stata chiusa da un dito di un guanto di gomma e all’occorrenza diventava un biberon. In ospedale le regalarono un completino e una cuffietta di lana per la piccola e un grande scialle per lei.
Augusta accettò tutto e un mattino prese la strada che portava a sud scendendo la collina di Sankt Leonhard e portandosi nel quartiere di Thondorf.


Per proseguire la lettura : e-mail a mariarosaromegialli@virgilio.it

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