Maria
Rosa Romegialli
Natolibero
PRESENTAZIONE
Nel 1944,
coraggiosamente, una donna
italiana scelse la vita per la creatura che portava in grembo,
conseguenza di
uno stupro di un militare nazista.
Nonostante
l’inferno intorno a lei,
quella donna riuscì a tornare a casa. Ma fu proprio qui che
dovette sopportare
il più tremendo dei dolori e la più grande delle
sofferenze.
Morì dopo 10
anni, rinchiusa dai
familiari in ospedale psichiatrico.
Quella neonata, salvata
dal sacrificio
personale di un deportato di Mathausen, il cui nome era Giuliano
PAJETTA, oggi
può parlare e raccontare una storia bellissima e unica.
Faticosamente e
dolorosamente ha ricostruito
la sua esistenza e quella di sua madre; ha dovuto, necessariamente,
inserire
pagine di “ricostruzioni veridiche” per far
partecipare tutti al suo dramma,
ricostruito sulla memoria di altri.
Non può,
qualche volta, testimoniare con
pezze giustificative la sua ricostruzione, ma quello che emerge sono le
terribili condizioni in cui nacque quella neonata.
Una donna, deportata
come lavoratrice
straniera per il Reich, fuggita da un campo di punizione della Gestapo,
come
poteva giustificarsi?
Dopo 60 anni, quella
neonata dà voce a
sua madre.
Desidero che queste mie riflessioni
giungano a mia sorella Maria Rosa Gusmeroli, l’unica persona
alla quale ho
rilasciato la verità sulla tragica storia della nostra
famiglia.
Sono Pierino Gusmeroli, fratello maggiore
di Maria Rosa e confermo che quanto mia sorella ha registrato a Caserta
e a
Teano, in due tempi successivi, è la verità, una
verità sempre taciuta ma
sempre conosciuta da tutti.
Solo a mia sorella Maria Rosa sono
riuscito a raccontare il tristissimo e tragico avvenimento che ha
segnato la
mia vita per sempre.
Con pazienza e molto timore ho riportato
alla superficie quei ricordi tragici, li ho voluti far registrare
affinché si
comprenda quanto catastrofico sia lo sfasciamento di una famiglia in
tempo di
guerra.
Allora avevo solo 8 anni ed ero il
fratello maggiore, ma per tutto quello che avvenne gli adulti mi
diedero colpe
che non avevo e le sorelline non seppero mai nulla... tutti mi
obbligarono a un
silenzio che è durato 50 anni.
Io non riuscivo a scordare la scena
avvenuta di notte a casa nostra: schiamazzi, urla, bastonate al nonno,
pugni e
calci alla mamma. Fummo rinchiusi in camera, udivo delle urla. Mi
ripromisi di
ammazzare quel cane che aveva osato tradire la mamma!
Il giorno dopo la vecchia mamma Vanoni
cercò di consolarmi, ma io scappai e andai dal maresciallo
dei Carabinieri,
Azzario e a lui, amico di famiglia, urlai il mio dolore.
Seppi che era stato lui a denunciare la
mamma e così come un folle corsi alla baita e presi lo
stern, nascosto nella
cappa del camino e ripercorrendo quella strada nel bosco, mi diressi
verso il
paese. Il mio odio era immenso.
Inciampai e l’arma cadde lungo un piccolo
rigagnolo d’acqua formato dal fiume Bitto. Svenni e quando mi
ripresi corsi in
paese e piansi, per molto tempo.
A 18 anni partii dal paese e non vi
tornai più.
«È un vecchio amico di prigionia, mi ha
salvato la vita».
Seppi in seguito che quell’uomo si chiamava
Pajetta.
Maria Rosa è la sola persona alla quale
io abbia aperto il mio cuore.
In fede (documento
firmato)
La natura vi segue il
suo ritmo immutato
e ancestrale, i profumi intensi e i mille giochi di luce nella fitta
vegetazione
dei boschi non si sono interrotti. La costiera retica e
l’orobica chiudono sui
due lati la valle su cui domina il pizzo dei Tre Signori.
Scendendo verso valle si
sente il profumo
dei boschi di larice e dei faggeti, sotto cui nascono le pianticelle di
mirtillo selvatico. Passeggiando lungo i sentieri silenziosi si possono
trovare
angoli selvaggi, ma di una struggente bellezza.
Tutto questo circondava
la vita di
Augusta Romegialli e della sua famiglia. Era la terza figlia di Romeo e
Maria e
fu la più amata. Il padre la portava sempre con
sé durante la raccolta e la
preparazione delle foglie su cui adagiare i bachi. Augusta era tenace e
forte,
esuberante ed estrosa, infaticabile. Il lavoro non la spaventava,
accudiva le
bestie, raccoglieva i rami per il fuoco, lavorava il latte, lucidava le
pentole
di rame. Amava profondamente la sua famiglia. Alla fioca luce di una
lanterna
leggeva il giornale senza fare alcun commento, mentre le donne filavano
la lana
e i bambini chiedevano le favole. L’intelligenza precoce
della bambina fu
notata dal prevosto del paese che incoraggiò la sua
istruzione. Il padre seppe
contemporaneamente darle forti insegnamenti di libertà, di
giustizia, di
democrazia.
Con la guerra
però molte cose cambiarono
in valle e nelle famiglie contadine. Augusta appartenne alla
generazione che
visse quella lunga e dolorosa stagione che portò anche il
rude popolo
valtellinese a combattere attivamente e poi a travolgere la dittatura
nazifascista. Fu una donna combattente, ma pagò per questo
un durissimo prezzo
che le sconvolse la vita.
Cresciuta con
un’emancipata visione
sociale di un mondo femminile pari a quello maschile, la sua
attività durante
il regime fu molto difficile. Fu molto difficile, perché si
ribellava alle
ingiustizie e anche isolata perché si mostrò
più di una volta insofferente alle
imposizioni di piccoli e insignificanti gerarchi del paese. Si era
sposata e
aveva avuto figli, ma seguì sempre gli avvenimenti interni
alla filanda, dove
sapeva che ancora molte giovanissime operaie erano obbligate a lavorare
con le
mani a bagno in grandi vasche di acqua calda per svolgere il filo dai
bachi.
L’acqua bruciava la pelle e formava piaghe,
l’ambiente era malsano e molto
umido. Augusta cercava di far capire loro quanto ingiusto fosse tutto
questo
anche a fronte dei piccoli miglioramenti sociali voluti dai fascisti.
Molti giovani erano
partiti per andare a
combattere nelle desolate pianure russe, ma erano equipaggiati
insufficientemente
e Augusta si era messa alla testa delle donne per preparare indumenti
di lana.
Molti di quei ragazzi morirono nel gelo russo e toccò alle
donne e agli anziani
sostituirli nel faticoso lavoro dei campi. Così il primo
anno di guerra maturò
l’autonomia decisionale delle donne. Le necessità
quotidiane avevano dato loro
coraggio e tenacia per fronteggiare le situazioni più
critiche e anche le
operaie delle filande iniziarono a interessarsi alla propria condizione
sociale.
Con i figli in istituto Augusta si
attivò
anche sul piano politico.
Da alcune amiche che lavoravano alla
filanda aveva saputo di liste di lavoratrici da trasferire in Germania.
Quelle
liste racchiudevano la metà della maestranza femminile e
l’ingaggio quasi sempre
era fatto in modo coercitivo e illegale. Augusta si sentiva vicina a
quelle
lavoratrici, madri di famiglia, che avrebbero dovuto lasciare i propri
figli ed
emigrare in Germania e lavorò anche di notte ma
dall’esterno per preparare una
dimostrazione unitaria di disobbedienza proletaria. Fu un periodo
massacrante e
pericoloso, nelle piazze della valle però si raccolsero non
solo le operaie
tessili ma anche i contadini e i lavoratori delle segherie per
protestare. I
fascisti non colpirono pesante, ma presero nota di molti nomi che
arrivarono loro
attraverso “informazioni privatissime” dai loro
osservatori sparsi in tutti i
paesi.
Ancora oggi la figlia maggiore di
Augusta, ha solo ricordi tristi di quella primavera del 1943. Aveva sei
anni,
gli occhi aperti sul mondo, e vedeva la sua casa silenziosa e senza
genitori.
Poi fu portata con la sorella Rosita in un istituto di suore
così severe che
non sapevano dare comprensione, né cristiana né
umana, né un semplice sorriso.
Non c’era allegria per le orfanelle più povere,
che dovevano solo obbedire,
dire rosari in cappella, sfilare nella loro divisa nera mute e con gli
occhi bassi.
Un Natale una benefattrice le regalò una bambola, ma la
suora direttrice la
portò in soffitta dicendo alla bambina che avrebbe dovuto
meritarsela. La
piccola allora si fece più obbediente, più
silenziosa, più pronta in tutto, ma
quel regalo non le fu mai ridato. Di quei lunghissimi mesi passati in
istituto Franca
ricorda l’amarezza della sua situazione e il dolce sogno di
stringere tra le
braccia quella bellissima bambola.
Il figlio maggiore di Augusta, forte di
carattere e molto maturo per la sua età, aveva un legame
particolare con la
mamma; era un bambino felice perché trattato da lei come un
figlio speciale a
cui fare piccole confidenze da quando in casa era venuta a mancare la
presenza
paterna. Era uno scolaro diligente e molto curioso. Ebbe un buon
maestro di
nome Stanislao che lo comprendeva e lo pungolava nello studio. Del 1943
ricorda
i lunghi discorsi con la mamma sulla situazione familiare. In istituto
gli
facevano compagnia i dolci ricordi della sua famiglia, la grande vigna
dei
nonni e il cortile dove poteva correre, i giochi con l’amico
Ezio Vanoni che abitava
accanto a loro nel vecchio mulino vicino alla ferrovia, il profumo
della pigiatura
dell’uva e le due famiglie che si incontravano e facevano
festa. Aveva solo
otto anni il primogenito di Augusta, ma per il suo carattere forte non
si piegò
alle continue vessazioni e insinuazioni delle suore
dell’orfanotrofio.
Erano convinte che quella donna avesse
abbandonato i figli perché profondamente egoista, di
principi morali deboli, pervasa
da un’insana sete di avventura.
L’armistizio in paese fu un dramma: molte
persone scomparvero, i giovani salirono in montagna, la dittatura
nazifascista diventò
più dura. Il bravo e buon maestro Stanislao dovette partire
per la Grecia,
Augusta e Pierino andarono a salutarlo alla stazione ed egli ne fu
felice.
-------------------------------------------------
Si mormorava che avessero grandi
patrimoni, ma si adeguarono immediatamente allo stile di vita
valligiano. Solo
pochi mesi dopo si avvicinò il pericolo dei rastrellamenti e
così iniziarono a
fuggire in Svizzera. Intere famiglie cercarono la fuga attraverso le
valli di
Masino, la Valmalenco, i boschi sopra Tirano. Si compravano il viaggio
pagando
grosse cifre ma molto spesso le guide avide di denaro li riportavano in
Italia
proprio in mano alla guardia confinaria fascista. Le città
lombarde furono
bombardate e gli sfollati fuggirono in Valtellina credendo erroneamente
di
trovarvi un buon rifugio. Il prefetto di Como aveva ordinato ai
militari in
servizio all’8 settembre di presentarsi al Distretto entro il
2 ottobre,
altrimenti sarebbero stati dichiarati disertori e fucilati.
Contemporaneamente,
con l’armistizio furono liberati duemilacinquecento
prigionieri alleati
rinchiusi a Bergamo alla Grumellina, a Brione. Questi ragazzi con
addosso ancora
le uniformi militari americane o inglesi si ritrovarono abbandonati a
se stessi
e a contatto con gente a loro ostile.
Quell’autunno pioveva spesso ed essi si
rifugiavano in capanne di paglia fradicia. Erano affamati e non
conoscendo i
luoghi molto spesso cadevano in mano ai fascisti che avevano
organizzato posti
di blocco e rastrellamenti nelle valli minori.
Augusta diventò una guida volontaria per
quelli che cercavano la libertà. Libertà,
appunto. Questa parola fu il centro di tutta la sua esistenza, il punto
da cui
partì per agire per la sua patria che voleva libera e
democratica.
Un giorno vide abbattere con una fucilata
alla schiena un ragazzo che aveva ancora addosso la divisa di pilota
americano.
La fucilata fu improvvisa, il militare
alzò le braccia al cielo. Augusta ritornò sui
suoi passi e lo vide disteso per
terra, gli sollevò la testa e notò che era ancora
vivo. Lo sguardo era quello
di un fanciullo indifeso, prima che morisse. Allora attrezzò
la baita del padre
lungo una mulattiera che scendeva in paese ben nascosta da alti
castagni e da
querce secolari e in quelle due stanze arredate in modo semplice
sistemò nuovi giacigli
e legna da bruciare. Molto ingegnosamente Augusta teneva la buca del
letame di
fronte alla baita sempre mezza vuota, così quelli che
arrivavano vi gettavano
in fondo le divise e in superficie davano fuoco a sterpaglie.
Rifocillati e
riposati e con abiti diversi, americani e inglesi seguivano Augusta
lungo
sentieri impervi fino alla valle che porta al passo Scalino e
scendevano poi in
territorio elvetico.
Quell’inverno fu molto freddo, c’era
l’oscuramento alle sette e mezza e alle nove il coprifuoco
fino al mattino
presto.
Tutti avevano paura di sentir
improvvisamente battere colpi violenti alla propria porta e di veder
apparire i
fascisti. In quei mesi erano anche iniziate le delazioni, ai fascisti
arrivavano lettere anonime di denuncia di privati cittadini che
accusavano amici,
vicini di casa, familiari. Erano lettere dettate solamente da motivi
personali
o da rancori venuti alla luce dopo l’armistizio.
Molto spesso erano vendette politiche che
ebbero un tragico epilogo nell’aprile del 1945. Augusta
pensava al peggio.
Temeva una denuncia dell’ispettore collaborazionista della Todt ed
era sicura di essere stata notata da
qualche fedelissimo “osservatore speciale” in paese.
Una sera di dicembre era felice perché
aveva portato i due figli maggiori dall’orfanotrofio a casa
dei genitori e
sperava di stare un po’ con loro. Aveva accompagnato la madre
dal fratello, il
padre dormiva, i figli erano a letto. Era restata sveglia a lungo con
lo
sguardo fisso sulla fotografia del marito, poi si era addormentata. La
casa era
tranquilla, sembrava una notte come le altre. Dopo qualche ora
improvvisamente
il silenzio fu rotto da schiamazzi e urla sotto alle finestre: il cane
abbaiava
furiosamente ma fu messo a tacere subito, diverse voci si inseguivano
disordinatamente nel cortile. La porta che saliva ai piani superiori fu
quasi
scardinata e una volta aperta le urla risuonarono su per le scale e
lungo il
corridoio. Augusta era rimasta pietrificata a letto, i bambini ancora
non si
erano accorti di nulla, il nonno era sordo e continuava a dormire.
Quelle belve trovarono la camera del
vecchio contadino, la spalancarono e urlando lo coprirono di botte
scaraventandolo per terra. Augusta, che aveva capito la situazione ed
era
uscita a precipizio dalla sua camera, fu subito agguantata da tre
energumeni
che le impedirono di andare nella camera dei figli, dove il maggiore,
di otto
anni, era restato muto e paralizzato a letto, mentre il fratellino, di
otto,
urlava e imprecava cercando di sgusciare dalle mani di un uomo alto e
grosso.
Augusta vide la porta della camera dei figli richiudersi violentemente
e da
quel momento non li vide più. Spinta lungo il corridoio
riuscì a intravedere
per un attimo suo padre per terra sanguinante e terrorizzato. Le fu
notificato
l’arresto in nome della nuova legge repubblichina. Tenendola
ferma al muro con
una pistola alla tempia i fascisti giravano per casa rovistando nella
biancheria,
negli armadi, nei cassetti. In cucina trovarono un coltello e
tagliarono un
vecchio divano e una poltrona, staccarono dalla parete il crocefisso
che fu
buttato per terra e calpestato.
La casa fu messa sottosopra, ma non
trovarono nulla.
-------------------------------------------------
GRAZ
Augusta stava sistemando i sacchi delle
verdure quando iniziò a suonare la sirena
d’allarme interna: si buttò sotto a un
grande tavolo e da lì sentì arrivare a intervalli
regolari gli aerei che
sganciavano le bombe. Il rumore era molto vicino, si sentì
per un attimo una
sirena d’ambulanza, poi tutto fu coperto dal fumo acre a cui
fece seguito un
attimo di silenzio spettrale. La squadriglia successiva
colpì le case vicine e
sembrò ad Augusta che una mano gigantesca avesse tolto la
casa dalle
fondamenta. Vi fu un grande boato e subito dopo uno spostamento
d’aria talmente
forte che aprì tutte le porte e le finestre del pianterreno,
i vetri andarono
in frantumi ed entrò una polvere grigia e soffocante. La
porta della cucina che
era chiusa a chiave si era spalancata. Augusta si rimise in piedi e
corse verso
il corridoio, non incontrò nessuno, guardò verso
il corpo di guardia
all’entrata e dove prima c’era la sentinella e la
porta vide un grosso buco.
Era l’occasione che aspettava.
Corse fuori in strada in mezzo a una
nuvola di terra e calcinacci.
Sul marciapiede intravide un’ambulanza
con le portiere aperte e i due occupanti che penzolavano fuori. Augusta
sentì un
forte movimento nel suo corpo, si fermò un attimo e si
guardò attorno, poi
iniziò a seguire un lontano rumore di sirena.
Arrivò a una grande via e si trovò
davanti una barriera di edifici in fiamme. Fu investita
dall’intenso calore e
per precauzione si portò al centro della strada per evitare
la caduta di muri pericolanti
e infuocati. Si allontanava, ma in realtà fuggiva dal
nazismo e dai suoi
orrori; c’era la neve e scivolava, le scarpe e le calze le si
impregnarono
subito d’acqua e diventarono pesanti.
C’erano sulla strada motociclette
arrugginite e fumanti, biciclette contorte, furgoncini ribaltati, reti
da
letto, una barricata sfondata, corpi di militari sbalzati da un sidecar
con i crani
fracassati. Da una piazza su cui non si affacciavano più
case prese un largo
viale. Improvvisamente sentì un rombo minaccioso a cui fece
subito seguito una
raffica di artiglieria che andò a colpire una finestra di un
edificio già
bombardato.
Fu investita da calcinacci e detriti, la
bocca le si riempì di polvere, iniziò a tossire
violentemente. Non riusciva più
a respirare ed emise un gemito, sollevò le mani al cielo:
non poteva morire
adesso che era libera e che suo figlio doveva nascere.
Riprese fiato, ma non era finita. Sentì
ancora un sibilo lungo e acuto, chiuse gli occhi e si nascose in un
portone
diroccato.
Vi fu un’esplosione che rimbombò come un
tuono impazzito.
Augusta andava avanti e con la forza
della disperazione quel giorno camminò per ore.
Incontrò una coda di donne a
una pompa dell’acqua, i piedi nella neve, i volti tesi e
stanchi. Più avanti fu
sorpresa dall’esplosione di un altro ordigno e
automaticamente si inginocchiò
con la testa tra le braccia. E poi ancora rovine e incendi in una
città
fantasma. Era stremata, il sudore le imperlava la fronte, iniziava a
sentirsi
male, le spalle magre le tremavano per il freddo. Si lasciò
andare e scivolò in
un sonno pesante e buio.
Nessuno, nemmeno lei, potrà raccontare
cosa successe dopo.
Era il 2 marzo del 1945. Dopo quasi due
anni di prigionia si trovò in un letto morbido e pulito. I
suoi occhi si
riaprirono su un biancore che la circondava, c’era odore di
ospedale.
Non riusciva a parlare, aveva la gola
secca e tanta sete, le mani erano magre e tremanti, le unghie luride,
ma era
viva. E si riaddormentò.
Quel suo risveglio in un ospedale fu
l’inizio di una nuova storia.
Il 14 marzo di notte su Graz si era
abbattuta la violenza delle unità aeree alleate che ormai
sapevano della
sfiducia della contraerea e della fanteria tedesca. Era notte ma la
città era illuminata
a giorno, l’aria era irrespirabile e grigia, si faceva fatica
a distinguere le
persone dalle cose, piovevano macerie infuocate. La zona fu evacuata
dai
civili.
L’operazione fu molto difficile, in quel
fumo denso si faticava a trovare una via di scampo, molti morirono
bruciati per
strada.
Poco più a nord c’era l’ospedale di
Sankt
Leonhard, complesso formato da molti edifici, centro universitario di
ricerca.
Gli Alleati non osservarono la croce
rossa sui tetti e una vasta ala del complesso prese fuoco, esattamente
quella
della maternità.
Il reparto fu sgomberato rapidamente
spostando i letti con le rotelle o trasportando i feriti e i malati su
barelle.
La confusione era totale. Il personale ospedaliero lavorava
alacremente, Augusta
fu tolta dal letto da un’infermiera e issata su una barella
che fu spinta
velocemente lungo un corridoio dove c’erano altre barelle,
tutti urlavano
perché volevano scendere al pianterreno dove era stata
sistemata una grande camerata
per le emergenze. Faceva ancora freddo e i barellieri non avevano
abbastanza
coperte per i ricoverati. C’erano persone in preda al panico,
molti bambini
erano stati messi in un letto e portati fuori nel cortile nel gelo
della notte.
La barella di Augusta era spinta da una ragazza che era la levatrice
del reparto,
il suo nome era Brigitte. Le due donne avevano fatto amicizia e
riuscivano a
scambiare qualche parola. Brigitte confortava Augusta e ogni volta che
era di
turno la visitava.
Erano le tre del mattino quando era
scoppiato il finimondo all’interno dell’ospedale e
la levatrice aveva capito
subito la gravità della situazione. Iniziò quella
folle corsa attraverso il lungo
corridoio e spinse la barella verso un’ala non ancora preda
delle fiamme.
Entrarono in un montacarichi di servizio e arrivarono al pianterreno.
Augusta
ebbe qualche attimo per guardare in volto quella brava ragazza che le
faceva
coraggio dicendole che suo figlio sarebbe nato. Il montacarichi si
aprì e
Brigitte spinse fuori la barella. Cercava di arrivare alla camerata
sotterranea,
ma improvvisamente cambiò idea perché si accorse
che il travaglio di Augusta
era iniziato. La portò lungo un muro lontano dalla
confusione e dalle fiamme
dell’incendio.
Augusta cercava di respirare ma l’aria
era gelida e acre. Fu presa dal panico perché la gola le
faceva male, non
riusciva a calmarsi e in quelle condizioni non poteva dare sufficiente
ossigenazione
al bambino. Il suo corpo riceveva pugnalate dolorose a cui faceva
seguito un
calore strano, avvolgente, e poi un vento gelido, e quel vento era
squarciato
ancora da una pugnalata, e avanti così per un’ora
o più. Quando ritornava lucida,
sentiva sulla fronte una carezza. Poi il respiro si fece più
veloce ma
regolare, non vi furono più le pugnalate nel ventre, solo
come strappi della
pelle. Augusta si sentiva estranea a quel figlio, l’amore
materno non c’era in
quel momento, ma combatteva per dargli la possibilità di
nascere vivo. La
levatrice continuava a parlarle dolcemente. Augusta faceva tutto da
sola quasi
meccanicamente, il volto lucido per il sudore, il respiro sempre
più breve e
affannoso. I dolori alla schiena e all’addome si facevano
sempre più forti, le
contrazioni si susseguivano senza intervalli. Vi fu un ultimo e
lunghissimo momento
di apnea e con un gemito prolungato apparve il bambino. Con un urlo di
gioia
Brigitte subito disse ad Augusta che era una bambina, molto magra ma
sana.
Augusta guardò quell’esserino emaciato, le fece
pietà e pianse, pianse a lungo.
Brigitte gliela diede da tenere e la
bambina aprì gli occhi e fece un versetto di gioia. Mamma
Augusta capì il
messaggio di quella figlia che aveva combattuto per venire al mondo
viva e libera.
Ora toccava a lei portarla in salvo. La neonata aveva la testolina
senza
capelli, le labbra in posizione di succhio, le manine chiuse con forza
a pugno.
La madre le toccò leggermente una manina ed ella la strinse
subito con forza,
come per farle capire che loro due potevano uscire da
quell’inferno. Augusta se
la strinse al cuore, la piccola teneva il volto girato verso la sua
mamma.
Brigitte suggerì di chiamarla come il fiore più
bello che vi fosse al mondo,
Rosa.
Era un piccolo fiore sbocciato
all’inferno. Tutt’intorno era ritornato il fragore
della battaglia, ma quella
neonata aveva dimostrato che la vita aveva avuto la meglio sulla morte.
Poi vi
fu un urlo e il corpo della levatrice colpito da un tizzone ardente
cadde
accanto al letto. I capelli bruciavano, il fuoco la avvolse...
quell’attimo di
gioia conquistato da Augusta dopo un travaglio morale lunghissimo fu
offuscato
da quella morte assurda.
Augusta fu dimessa il 23 marzo con alcuni
documenti.
Augusta accettò tutto e un mattino prese
la strada che portava a sud scendendo la collina di Sankt Leonhard e
portandosi
nel quartiere di Thondorf.